di Simone “Inox” Pedrazzi
In ambito sportivo abbiamo sentito tutti parlare dell’agonismo.
L’agonismo è spesso inteso semplicemente come “desiderio di vincere una competizione”.
E fin qui direi “grazie al mazzo”, penso che siano veramente pochi coloro che non desiderino vincere un qualche tipo di gara, gioco o confronto.
Vincere piace a tutti, anche se non è per tutti.
Certamente, per vincere ci sono atleti che si impegnano più di altri ad allenamento: quelli che quando c’è da fare un esercizio lo eseguono senza batter ciglio anche se è particolarmente stancante, quelli che cercano di eseguire un movimento alla perfezione e quelli che quando c’è da fare delle prove di gara sono sempre i primi a mettersi in gioco.
Anche nei “corsi per agonisti”, che generalmente raccolgono queste persone mosse da questo particolare desiderio di sfida, ci sono coloro che dimostrano maggiormente questa mentalità. Motivo per cui spesso ai corsi per agonisti anche l’allenatore può concedersi di spingere maggiormente su alcuni elementi sui quali ad un corso “classico” non si sarebbe soffermato più di tanto: sa che le persone davanti a lui non sono lì per girarsi i pollici ma son lì per ottenere il massimo.
Ma queste persone che partecipano alle serate per agonisti sono agonisti?
Per me no.
Personalmente penso che l’agonismo si manifesti in ciò che un praticante fa “fuori” dalla palestra, non “dentro”.
A dare il massimo in palestra son buoni tutti (ok, non davvero tutti, ma sorvoliamo) ma si parla di 2, forse 4 ore a settimana. Un mio allenatore anni fa disse (probabilmente citando qualcun altro a sua volta):
”Voler vincere non serve a nulla: bisogna voler farsi il culo per vincere! O almeno farselo lo stesso anche se non se ne ha voglia”
Quella frase mi ha colpito molto, e in tanti anni di insegnamento e allenamento ho visto molto bene come ci fossero persone che pur essendo titolari delle proprie squadre sportive o seguendo pedissequamente gli allenamenti per agonisti non facessero più di quanto non fosse necessario. Si impegnavano quel che bastava per superare la gara o l’allenamento e poi arrivederci, chi si è visto si è visto.
Allo stesso tempo però c’erano anche quelle persone che non solo si impegnavano in palestra o in gara, ma facendo più di ciò che era il necessario si allenavano anche per conto proprio, pensavano a come battere un avversario o superare un’avversità sportiva anche fuori dal contesto di allenamento.
Quelle persone che mi chiedevano come allenarsi ulteriormente, come apprendere piccole o grandi abitudini per cambiare il proprio gioco o semplicemente che si presentavano con l’umiltà di dire “voglio migliorare, ti chiedo di darmi una mano”.
La ricerca di miglioramento costante, a prescindere da gare, esami o altro.
La vittoria per un agonista non è che una conseguenza.
Qui si nota anche la differenza tra il “sano agonismo” e la “competitività tossica”: chi fa sano agonismo non sa cosa voglia dire arrendersi mentre chi fa competitività tossica non sa perdere, che è molto diverso.
La competitività tossica è il lato oscuro dell’agonismo, quello in cui anziché cercare di migliorare se stessi si cerca di peggiorare gli altri. Anche inconsapevolmente, ma con critiche non costruttive agli altri atleti si può minare la loro performance a favore della propria. O arrivando, spesso sempre senza rendersene conto, a notare solo gli errori o i falli altrui anziché i propri.
Ma questo tipo di atteggiamento porta solamente a vivere lo sport in maniera violenta e repressa, e porterà a mollare (o a diventare un tifoso tossico, la cosa più brutta dello sport a mio avviso).
Il vero agonismo, quello sano, non fa nulla di tutto questo.
”A decapitare gli altri non si diventa più alti, lo si diventa solo crescendo”
Tornando a noi: l’agonismo vero secondo me si manifesta appunto in quanto tempo una persona dedica oltre all’orario della palestra ad uno sport. A quanto ci pensa. A quanto ne è ossessionato.
Forse l’ossessione stessa è una forma di talento? No, perché l’ossessione va coltivata e applicata. Se uno trasforma la propria ossessione in energia per allenarsi allora sì: allora l’ossessione potrà battere il talento.
Ci sono atleti là fuori talentuosi, ma non agonisti.
L’agonista è colui che usa la passione come energia.
D’altro canto, il termine agonista deriva pur sempre dall’ Agone, lo spirito della competizione di Olimpia.
Chiudo con un dialogo di un film (film che non mi fa impazzire, ma che in questo caso calza) che secondo me rappresenta al meglio questo concetto.
"- Sei arrivato fino a qui e dopo la prima brutta giornata pensi di mollare tutto?
- Faccio schifo
- Ami questo gioco? Insomma lo ami con tutto il cuore?
Perché se non è così non ne vale la pena più di tanto. Non apriremo una porta che ci sbatteranno dritto in faccia, io amo questo gioco io vivo per questo gioco!
Ci sono altri mille ragazzi che aspettano dietro le quinte che sono ossessionati da questo gioco.
L’ ossessione batte il talento, lo batterà sempre.
Tu hai anche tutto il talento del mondo, ma hai anche l’ossessione?
È l’unica cosa a cui pensi?
Ascoltami, lì fuori sei tu contro te stesso. Quando entri in quel campo devi pensare “Io sono il miglior giocatore qui dentro”. Anche se hai Lebron come avversario.Te lo chiedo di nuovo, tu ami questo gioco?
- si
- Ho davanti a me un gattino appena nato che fa le fusa?
Non ho sentito, vuoi entrare ha far parte della NBA??
- SI!!
- Be allora diamoci da fare . Mai mollare, chiaro?"
(Hustle)
Bellissimo articolo, grazie Inox molto di ispirazione!